Crisi delle materie prime, aumenti del carburante, inflazione galoppante, transizione ecologica difficile.
Quale orizzonte si prospetta per il comparto?
Immatricolazioni in calo, saloni sempre meno affollati, minore ricerca di novità: sono tutti indizi che provano la crisi affrontata dal mercato italiano dell’automobile. I segnali incoraggianti giunti dal 2021 e dal 2022, con una ripresa della domanda, si sono scontrati con la durissima realtà di un 2023 da incubo per il settore. Esaurita la spinta nei primi due mesi dell’anno, la richiesta di nuove autovetture ristagna e non intercetta l’abbondanza di un’offerta che però non contribuisce ad abbassare il prezzo di vendita. L’inflazione galoppante (+7.6% su base annua) influisce direttamente sulle scelte strategiche di consumatori e famiglie che preferiscono orientare la spesa su beni di prima necessità, rimandando o annullando gli acquisti di medio-grande entità come quelli di nuove autovetture. E se tutto sommato il mercato dell’usato tiene, forte di una scelta ancora piuttosto ampia a dispetto delle limitazioni anti-inquinamento, a soffrire sono soprattutto i nuovi prodotti.
Non bastano infatti la tecnologia, l’abbattimento dei consumi e la proposta sempre più ampia di veicoli ibridi ed elettrici a stimolare il mercato. Se il primo ostacolo alle vendite ossia la carenza di materie prime che ha ritardato le consegne negli ultimi due anni appare tutto sommato risolto, sono i restanti elementi di disturbo a zavorrare il comparto. L’inflazione ha spinto i listini verso una zona agibile per sempre meno soggetti, complice la sempre minor convenienza dei prestiti di denaro – oltre il 70% degli acquisti di autovetture private avviene tramite finanziamento bancario. Anche i famosi incentivi non riescono a sortire effetto a causa della loro natura parecchio restrittiva: le caratteristiche richieste dal tipo di vettura da acquistare (emissioni, potenza, ovviamente prezzo) così come la destinazione di buona parte delle risorse finanziarie a specifiche fasce di popolazione restringe l’imbuto delle domande e delle conseguenti erogazioni. E tutto ciò si tramuta in un ulteriore fattore di crisi.
Anche per questi motivi il previsto sfondamento dell’auto elettrica non è avvenuto. Oggi le full electric rappresentano appena il 4.1% del parco circolante, una percentuale bassissima e che non ha registrato grandi incrementi. A credere nella propulsione elettrica pura sono soprattutto le flotte aziendali, attirate dalle facilitazioni (esenzione dal bollo, possibilità di ricarica interna) più che da una vera svolta ecologista. Non se la passa meglio il ridotto settore delle plug-in che ad oggi vale il 4.7% del mercato: anche questo indicatore fa comprendere come la ricerca di colonnine libere, a buon prezzo e con erogazione ad alto potenziale spaventi la clientela. Ad influire negativamente su tutte le vettura da ricarica a presa è la prospettiva dei lunghi tempi di ricarica: ben pochi accettano di aspettare dai 25 ai 35 minuti per il pieno di un’elettrica che poi garantisce poco più di 300 chilometri di autonomia reale. Il grande limite è tutto qui e sta richiedendo grandi investimenti da parte delle Case tanto nel supporto alla rete di ricarica quanto nella riduzione delle tempistiche.
Il crollo peggiore è quello registrato dalle vetture alimentate a metano, complice l’impennata del prezzo del relativo carburante: a dispetto degli enormi sconti garantiti da costruttori e concessionari per fronteggiare l’esplodere della crisi, oramai la auto con simile alimentazione stanno scomparendo dai listini venendo proposte solo come rimanenze di salone e mai come nuovi ordinativi. Non va molto meglio al diesel, la cui nicchia si è assestata al di sotto del 20% nazionale a dispetto della riduzione del costo del carburante – fattore basilare, la riapertura di alcune raffinerie dedicate che ha provocato la ridiscesa delle quotazioni dopo il sorpasso alla benzina verde dell’anno scorso.
La tendenza premia invece le full hybrid, ossia le vetture dotate di un doppio motore endotermico ed elettrico: questa tipologia di auto oramai vale la fetta in proporzione maggiore (34.7%) e vede un costante aumento di interesse. Soprattutto tra le citycar, visto che nella top 5 dei modelli più venduti si registrano ben quattro modelli di Classe A. Potenza del costo più accessibile, che riporta la discussione su un piano di mera convenienza: oggi chi vuol acquistare un’autovettura preferisce sì l’ibrido, ma senza rincorrere grossi volumi e costi sostenuti. Piccolo è bello, specie per le giovani generazioni che sono le più attente alle questioni ambientalistiche ma anche quelle con la minor capacità di spesa: questo dettaglio chiarisce come mai gli Under30 preferiscano orientarsi su scelte che combinino consumi ridotti, emissioni inquinanti inferiori e prezzo d’acquisto non superiore a 20mila euro. Da qui nasce l’interrogativo che in molti tra concessionari ed analisti si stanno ponendo: l’auto del futuro sarà sempre più un ritorno al passato, all’utilitaria milleusi in stile anni ’60 e ‘70, riducendo i grandi veicoli ad un costoso giocattolo per pochi fortunati? Oppure la tendenza attendista riguardante l’inflazione si ripercuoterà anche sul mondo automotive, con una ripresa attesa tra un paio d’anni quando il costo del denaro sarà divenuto un argomento meno pressante per tutti? Ai posteri l’ardua sentenza.
di Federico Bettuzzi